Che Paese sarà l’Italia nel 2026? Quando cioè, tutti i 248 miliardi di euro legati al Recovery Plan e previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza saranno stati spesi? Nel passaggio dal governo Conte2 al governo Draghi, va detto, una discontinuità c’è stata. Si è passati da un mero elenco di progetti di investimento, spesso anche slegati tra di loro, a un sistema integrato di riforme e opere pubbliche. Con le prime che, probabilmente, saranno più delle seconde il vero “lascito” del Pnrr. Quello disegnato nelle 270 pagine del documento inviato alla Commissione europea, e battezzato «Italia Domani» è un Paese del tutto nuovo. Un Paese dove un concorso pubblico dura, dalla pubblicazione del bando all’assunzione, solo tre mesi. In cui per passare dal progetto al cantiere, un’opera pubblica impiega soltanto sei mesi. In cui tutti gli studenti, in qualsiasi parte d’Italia essi si trovino, vanno a scuola a tempo pieno. E svolgono le loro lezioni in aule di ultima generazione connesse alla rete. Un Paese in cui un cittadino che si presenta in un ufficio pubblico per chiedere un documento, non deve fare il giro delle sette chiese per procurarsi altri atti che già sono in possesso della pubblica amministrazione. Un Paese dove dalle grandi città fino ai piccoli borghi, tutti i cittadini hanno una connessione a banda ultra-larga. E dove per andare da Roma a Lecce, o da Napoli a Bari, o per arrivare a Reggio Calabria, ci vorranno poche ore come oggi accade solo per le aree più ricche dell’Italia. Mettere tutto questo sulla carta, nel lungo documento inviato a Bruxelles, è stato probabilmente il passaggio più semplice.
LA SFIDA
La vera sfida comincia adesso, nell’attuazione del piano. I tempi concessi dall’Europa per portare a termine gli investimenti sono strettissimi. C’è tempo fino al 2026. Ma attenzione, il 2026 significa che per quell’anno i cantieri dovranno essere chiusi e le opere perfettamente funzionanti. Non c’è spazio nemmeno per un giorno di ritardo. Se i cronoprogrammi non saranno rispettati, l’Europa non procederà con i pagamenti. Cosa questo possa significare per un Paese indebitato fino al 160 per cento del Pil è chiaro. Le opere andrebbero pagate con soldi nazionali che, almeno per il momento, non ci sono. Il fallimento del Pnrr sarebbe il fallimento del Paese. Per ora, a garantire il successo del piano, c’è Mario Draghi. Il suo però, è un governo a tempo. Se va bene durerà fino alla fine della legislatura, nel 2023. E poi? Poi toccherà a chi arriverà dopo traghettare il piano verso i suoi secondi tre anni di attuazione. Dunque, una delle missioni principali del governo Draghi, sarà quella di garantire che chiunque verrà dopo di lui, continuerà nell’attuazione del Piano di ripresa senza deviazioni. Per questo, ancora prima degli investimenti, l’intenzione del governo è quella di procedere con le riforme. Dalla Pubblica amministrazione alla giustizia, fino alla concorrenza e al Fisco, le nuove regole del gioco serviranno a indirizzare la barca verso gli obiettivi stabiliti nel piano nazionale di ripresa e resilienza a prescindere da chi sarà il timoniere. Se Draghi uscirà indenne da questo passaggio, nel quale sono prevedibili le resistenze delle lobby e dei centri di interesse, avrà fatto la gran parte del lavoro. La prima prova ci sarà già a maggio, con il decreto sulle semplificazioni. Un provvedimento che farà da cartina tornasole per ul futuro del piano.