Tra le nuove sfide che ci attendono nel prossimo futuro c’è anche quella di contrastare efficacemente i danni ambientali da inquinamento digitale. Un inquinamento “invisibile” e proprio per questo ancor più pericoloso. Qualsiasi azione nella rete porta infatti a complesse elaborazioni di dati da parte dei Data Center e dei server, laddove un server produce ogni anno da 1 a 5 tonnellate di CO2. Guardare un video di un’ora da uno smartphone è pari al consumo annuale di un frigorifero. Tre e-mail generano la stessa CO2 prodotta percorrendo 1 km in auto. L’invio di un’e-mail con allegato consuma quanto una lampadina accesa per una giornata, laddove una e-mail da 1 megabyte equivale a circa 20 grammi di anidride carbonica.
LA SORPRESA
E i problemi sono aggravati dall’esplosione delle criptovalute. Le emissioni di carbonio generate da Bitcoin sono ormai paragonabili a quelle di una nazione, laddove il sistema Bitcoin ha immesso nel 2019 CO2 quanto la Nuova Zelanda e consuma energia elettrica quanto l’Argentina. E poiché la potenza di calcolo necessaria per risolvere gli algoritmi per estrarre i bitcoin dalla rete è in aumento progressivo, il problema sta sempre più peggiorando. Basti pensare del resto che per estrarre 1$ di bitcoin serve una quantità d’energia quattro volte superiore a quella richiesta per 1$ di rame e il doppio rispetto a 1$ di oro, o di platino. Ma, a parte approfondire come limitare, tecnicamente, i danni ambientali che tali fenomeni possono produrre, ciò su cui preme appuntare l’attenzione è anche l’aspetto fiscale, laddove, ad esempio, sono molte le proposte che analizzano l’introduzione di una carbon tax, spostando la pressione fiscale dal lavoro alle emissioni di CO2. Nel settore della tutela dell’ambiente appare del resto evidente l’importanza della leva fiscale, che dovrebbe essere usata come strumento per agevolare le potenzialità positive collegate allo sviluppo di settori innovativi.
L’ESEMPIO
Seguendo magari l’esempio di quanto già fatto nella provincia della Columbia britannica, con un’indispensabile “clausola di salvaguardia” di neutralità fiscale, nel senso che le risorse incamerate attraverso una eventuale carbon tax vengano poi restituite alla collettività attraverso agevolazioni fiscali e crediti d’imposta. Ma certo agire in via isolata con soluzioni esclusivamente nazionali porterebbe in ogni caso poco lontano. In un sistema economico globale come quello attuale è infatti fondamentale difendersi dalla concorrenza estera, magari attraverso una border carbon tax e sistemi di compensazione per chi subisce i costi generati della carbon tax nazionale. In un tale contesto bisognerebbe quindi valutare gli standard dei prodotti in ingresso e, nel caso di standard inferiori a quelli imposti ai produttori interni, applicare imposte addizionali sui prezzi al consumo. Non a caso, peraltro, l’Unione Europea ha indicato proprio nella border carbon tax una delle principali fonti di risorse proprie per raccogliere fondi per finanziare il piano Next Generation Eu. Il nodo centrale resta allora individuare idonei e condivisi standard di sostenibilità ed efficaci indicatori ambientali (impronta di carbonio, impronta d’acqua, grado di circolarità dei prodotti, intensità delle emissioni inquinanti).
IL PIANO
Per adottare una tassa alla frontiera sulla CO2 sarebbe comunque necessaria una revisione del mercato ETS (Emissions Trading Scheme), il mercato europeo delle quote di CO2, che oggi prevede che le industrie più inquinanti ricevano ogni anno un certo numero di free CO2 allowances, quote gratuite di CO2 che permettono loro di proseguire le attività senza dover pagare per l’inquinamento che stanno producendo. Dato che lo scopo di tale mercato è proprio quello di prevenire l’eventuale delocalizzazione di industrie in Paesi extraeuropei con minori vincoli ambientali, non sarebbe allora possibile utilizzare, allo stesso tempo, il mercato ETS e una tassa alla frontiera sulla CO2, pena un doppio vantaggio alle industrie europee rispetto ai concorrenti stranieri. Insomma, problemi di non poco conto. E tutto questo senza dimenticare il tema da cui siamo partiti e cioè quello dell’inquinamento digitale, che, a causa della sua immaterialità, rischia di scontare quelle stesse difficoltà di regolamentazione già incontrate con la web tax, sfuggendo, anche in questo caso, ad eventuali tentativi di tassazione finalizzati a limitarne le pesanti esternalità negative.
*Direttore Osservatorio Politiche fiscali Eurispes
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