E' stata ribattezzata la tempesta perfetta, da scongiurare. E non perché manchi la domanda. Anzi. Sui traffici marittimi non solo si sono abbattuti gli effetti della pandemia, ma a catena anche l’impennata dei costi dei noli. Fattori cui si legano il congestionamento degli scali (con la riduzione causa Covid della capacità della forza lavoro) e il boom dell’e-commerce, con la complicità dell’incidente della Ever Given che ha bloccato il Canale di Suez e quindi i trasferimenti di merce da un continente all’altro.
L’allarme rincari è scattato in queste settimane: il Baltic Dry Index, l’indice di riferimento dei noli marittimi, ha raggiunto il suo massimo superando quota 4.200. Ma era tutto nell’aria da tempo. «A partire dallo scorso anno, causa pandemia, c’è stato il progressivo squilibrio nella disponibilità di container vuoti, soprattutto a causa dell’accumulo di scorte da parte degli Stati Uniti», ricostruisce così il punto di partenza l’ultimo rapporto Italian Maritime Economy di SRM, centro studi collegato al gruppo Intesa Sanpaolo. «I noli per i container sono cresciuti e continueranno con tale tendenza fino a metà del prossimo anno», sottolinea Massimo Deandreis, direttore generale di SRM. Sono invece rimaste invariate le tariffe ro-ro, cioè il trasporto dei camion su distanze vicine che vede l’Italia leader mediterraneo ed europeo.
LA PROSPETTIVA
Ma come potrebbe ridisegnarsi lo scenario della portualità? In breve: il Mediterraneo, da mare di transito, diventa mare di concorrenza. «È la regionalizzazione della globalizzazione», sottolinea Deandreis. E l’Italia – dove il contributo del cluster marittimo è pari a più del 2% del Pil – ne è il naturale crocevia. Con l’incognita, però, delle infrastrutture da potenziare. Il punto di caduta è una catena di produzione a corto raggio, perché già con la pandemia tanti operatori hanno scoperto le distorsioni di una supply chain basata tutta sull’Estremo Oriente: reshoring e near-shoring. «Ciò non vuol dire che tutto tornerà in Italia – spiega Deandreis – Le catene di produzione rimangono globali ma più vicine, nell’area del Mediterraneo e del Golfo. Una strategia che, da previsioni al 2024, segnerà nel Mediterraneo una crescita del 4,9 per cento, seconda area mondiale per traffico marittimo container dopo il Far East. Le autorità egiziane stanno studiando un ulteriore allargamento di Suez».
Oggi il trasporto marittimo – ricostruisce lo studio di SRM – resta il principale veicolo del commercio internazionale: il 90 per cento delle merci transita via mare. Il 2020 ha registrato un calo del 3,4 per cento, ma si prevede un buon rimbalzo per quest’anno, pari al 4,1 per cento, superiore ai livelli pre-Covid. Cosa cambierà nella portualità europea? «I porti del nord Europa rimangono ad oggi più competitivi rispetto a quelli del Mediterraneo, ma si è ridotto il gap – sottolinea Deandreis – Negli ultimi quindici anni il traffico dei porti del Mediterraneo in termini di container è aumentato del 108 per cento, con una crescita più veloce che al Nord, dove peraltro gli scali sono prevalentemente fluviali». Un quadro in cui l’Italia è punto di raccolta e di transito, ricostruisce lo studio, sia delle subforniture provenienti dai Paesi del Nord Africa, sia dei beni intermedi prodotti dalle Pmi italiane e diretti verso il Sud Europa. Quadro che non sfugge agli investitori stranieri. «Già nei porti di Genova e di La Spezia vi è una consolidata presenza di terminalisti del Far East e del Nord Europa – spiega Deandreis – A Trieste investono i tedeschi di HHLA. Gli operatori turchi di Yilport hanno investito sul porto di Taranto». Inoltre, va considerato che «tutti i più grandi carrier sono passati da un modello industriale dove si operava solo o prevalentemente in mare a un modello in cui l’operatore copre – con società controllate o partner – tutta la filiera del trasporto da mare a terra. In questo contesto il controllo di terminal portuali propri diventa ancora più strategico».
LA CENTRALITÀ
Insomma, se trent’anni fa il traffico entrava da Suez e usciva prevalentemente da Gibilterra, oggi fa tappa nel Mediterraneo. «L’Italia è al centro geografico di queste dinamiche – aggiunge Deandreis – Abbiamo porti di ottimo livello, c’è la grande opportunità delle Zes e ci sono i 3,8 miliardi di euro previsti per i porti dal Pnrr. Ora non si può dire che non ci sono le risorse: i tempi sono stretti ma se il Piano verrà attuato darà ulteriore slancio al ruolo dell’Italia». Che di suo ha consolidato la posizione di leadership tra i Paesi Ue nel segmento dello short sea shipping nel Mediterraneo, con 244 milioni di tonnellate e una quota di mercato del 39 per cento.
GLI INTERVENTI
Le opere, dunque. Rileva il rapporto SRM: «I nostri scali soffrono ancora di problemi infrastrutturali, lato mare e lato terra, e di capacità intermodale limitata. Le reti stradali e ferroviarie sono ancora inadeguate soprattutto in alcuni nodi strategici, i tempi di gestione di scarico/carico sono molto lunghi e sono numerose le criticità connesse alla morfologia del territorio». Servono «interventi mirati». I fondi del Pnrr sfiorano i 4 miliardi, tutto compreso: potenziamento dei porti, cold ironing, efficientamento energetico, ultimo miglio ferroviario a Venezia, Ancona, Civitavecchia, Napoli e Salerno. «Bisogna agire sui ritardi strutturali e sbloccare tutte le opere che migliorerebbero i collegamenti tra Nord e Sud del Paese e con il resto del mondo», dice il presidente della Coldiretti Ettore Prandini, lanciando l’allarme competitività a partire proprio dai noli. Specie ora che si viaggia verso il Natale. «In un processo di razionalizzazione causa Covid c’è stata una forte riduzione della stiva: è auspicabile un ritorno alla normalità in tempi brevi», sottolinea Rodolfo Giampieri, presidente di Assoporti. In Italia ci sono 16 Autorità di sistema portuale per 57 scali. Il Pnrr riuscirà nel suo intento? «L’obiettivo intanto è spendere i fondi bene in infrastrutture utili e puntando al green, anche alla luce del fatto che i nostri porti sono quasi tutti all’interno dei centri urbani – spiega Giampieri – Ora, davanti alla scadenza della fine delle opere entro il 2026 si pone il tema oggettivo di capire se, a legislazione invariata, l’obiettivo sarà raggiungibile. Sarebbe molto importante una semplificazione normativa, non per evitare procedure che sono doverose, ma per evitare sovrapposizioni e agire in tempo, e in tal senso ci sono segnali incoraggianti da parte del Governo. Una delle nostre proposte è un tavolo interministeriale, a costo zero, con tutti i soggetti interessati, così che i tempi siano certi e ridotti: dovranno servire al massimo sei-otto mesi per chiudere l’iter autorizzativo di ogni progetto, altrimenti non si riuscirà a realizzare le opere».
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