Una delle battute più note del cinema mondiale è probabilmente quella di Marty Feldman in Frankenstein Junior: «Potrebbe essere peggio: potrebbe piovere».
E comincia a diluviare. Oggi quel diluvio, lungi dall’essere il peggio che ci può accadere, è al contrario il sollievo che mezza Italia stava aspettando da mesi. Da centoundici giorni per l’esattezza. La lunga siccità – peraltro seguita, invece che da una benefica pioggia, da una gelata che ha portato gravi danni alle campagne – è l’ultimo degli elementi di uno scenario che forse solo un buon libro di fantascienza avrebbe potuto immaginare. Senza, peraltro, risultare molto credibile. Usciamo, o almeno si spera, da due anni di pandemia mondiale, causata da un virus dalla provenienza ignota e dal destino ancora più ignoto. Siamo appena entrati in un conflitto alle porte dell’Europa che nessuno credeva davvero potesse scoppiare. Un conflitto che, per quanto sia vicino alla fine della sua parte più cruenta, ha messo in discussione rapporti diplomatici ed economici già tesi in passato ma che, ancora più gravemente, potrebbe mettere in discussione anche tradizionali amicizie, come quelle tra Paesi dell’Unione europea. Il tutto, non dimentichiamolo, all’interno di un trend di lungo periodo che vede la Terra riscaldarsi a un ritmo mai sperimentato prima. E gli effetti di questo riscaldamento li sperimentiamo anche a casa nostra: ghiacciai che scompaiono, corsi d’acqua ridotti, emergenza idrica al sud del Paese durante l’estate e, sempre più spesso, anche al nord durante l’inverno. Che cosa bisogna aspettarsi per il futuro? Come cambieranno le nostre vite? Quali saranno gli effetti di questi fenomeni sul mondo che abbiamo conosciuto finora?
IL DESTINO DELLA GLOBALIZZAZIONE
Interrogativi ampi e risposte difficili. Per provare ad affrontarli, meglio concentrarsi su alcuni aspetti specifici. Il primo è il destino della globalizzazione, cioè delle relazioni commerciali (ma anche politiche) tra i Paesi del mondo. Il secondo è la capacità delle nazioni, specialmente quelle europee, di continuare a collaborare su due questioni fondamentali, vale a dire quella del fabbisogno energetico e quella del fabbisogno alimentare. Anzitutto la globalizzazione. Il fenomeno, in sé, è destinato sicuramente a sopravvivere. La globalizzazione, intesa come commercio internazionale ma anche come interdipendenza economica e culturale, non è certo nata in questo secolo e, a ben vedere, nemmeno in quello precedente. Basti pensare ai racconti sulla Via della seta di Marco Polo, nel XIII secolo. O, se si vuole interrogare la storia del pensiero economico, all’opera di Adam Smith, il filosofo ed economista scozzese secondo cui il commercio internazionale era il mezzo per aumentare la ricchezza delle nazioni: lo scriveva più di due secoli fa. La questione oggi è piuttosto che cosa guiderà gli scambi commerciali: la politica dei vantaggi comparati, come insegnano l’economia e il buon senso? O sempre di più le relazioni diplomatiche? Il conflitto tra Russia e Ucraina costringe a chiedersi che cosa succederà quando la guerra sarà definitivamente affidata ai libri di storia.
LO SCAMBIO INDECENTE
Il mondo commercerà ancora con la Russia? Se il leader di quel Paese sarà sempre Putin, risulterà davvero molto difficile per tante democrazie giustificare ai propri elettori lo scambio di denaro con quello che, per molti, è ritenuto oggi un vero e proprio criminale di guerra. Difficile anche pensare che si formerà un nuovo blocco orientale, guidato da Russia e Cina, contro un blocco occidentale. Il mercato russo non è così ampio per la Cina da compensare la perdita dell’Occidente; né gli importanti investimenti cinesi in Europa e nel resto del mondo potranno essere semplicemente abbandonati dopo anni di paziente e strategica penetrazione cinese in quei mercati. Sarà probabilmente vero, però, che i valori, intesi come principi fondamentali espressi dalle Costituzioni e come metodi di selezione della classe dirigente, avranno un peso nella scelta dei partner commerciali. Non che la storia, su questo, sia particolarmente rassicurante. Il nostro stesso Paese, per esempio, è molto più esposto oggi sul fronte energetico con la Russia di quanto non lo fosse prima del 2014, prima cioè dello scoppio di quella crisi in Crimea che, di fatto, è stata solo l’antipasto dell’attuale invasione in Ucraina. Ci sono poi le questioni relative alle materie prime strategiche, tra cui, in particolare, l’energia e soprattutto il cibo. Sull’energia i segnali sono contrastanti. Le prime comunità economiche europee, nate sulle ceneri di un continente distrutto dalla Seconda guerra mondiale, avevano la finalità di produrre, condividere e distribuire equamente le fonti di energia tra i Paesi partecipanti: la Ceca (Comunità europea per il carbone e l’acciaio) del 1951 e l’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica) del 1957. Tuttavia, da molti anni ormai quella visione comunitaria appare offuscata. Le strategie energetiche, oggi, sono soprattutto nazionali; le eventuali collaborazioni sono guidate principalmente da interessi interni e non da logica cooperativa. E questo, a dire il vero, vale anche per molte altre infrastrutture, come ad esempio le grandi vie di comunicazione. Le recenti divisioni dei Paesi europei sulle sanzioni e sulle scelte di stoccaggio a seguito del conflitto russo-ucraino sono l’effetto di questa impostazione egoistica. Infine, le materie prime alimentari. Forse il tasto più dolente, soprattutto perché, a torto, ritenuto un problema secondario. Qualche settimana fa, mentre alcuni leader europei si erano incontrati a Versailles per discutere della crisi in Ucraina, una giornalista chiese al presidente del Consiglio italiano se fossimo in una economia di guerra. La risposta di Mario Draghi fu molto decisa e senza tentennamenti: «Dobbiamo prepararci: ma non è assolutamente un’economia di guerra». Difficile dare torto al premier. I lavoratori continuano a svolgere le proprie attività, nessun capitale (fisico o monetario) è stato confiscato o adattato a nuovi bisogni. Come, è utile ricordare, accadde due anni fa, quando intere fabbriche si dedicarono alla produzione di mascherine invece che ai loro prodotti tipici. Ma bisogna, appunto, prepararsi. E non solo per cercare fornitori alternativi di energia. Quanto sta accadendo in queste settimane sul mercato mondiale del grano e di altri cibi destinati a finire sulle nostre tavole deve fare riflettere perché non si tratta solo di speculazione, destinata a esaurirsi quando le immagini devastanti delle città ucraine cominceranno a sbiadirsi. Da più parti si teme infatti un autunno meno prodigo dei prodotti della terra, con serie ripercussioni sugli scaffali delle catene distributive.
SCENARIO DI GRANDI TENSIONI
La sensazione è che gli Stati saranno molto meno disposti di prima a vendere le proprie risorse alimentari, sviluppando anzi forme di autonomia per non dipendere più dal commercio internazionale. Uno scenario destinato a creare grandissime tensioni all’interno di quei Paesi che, per conformità del territorio o densità della popolazione, questi spazi non li hanno o non li hanno più. Oppure, e qui si torna al problema iniziale, questi spazi li vedono piano piano scomparire sotto i raggi di un sole sempre più caldo e sempre più frequente, anche nei mesi freddi. È uno scenario pessimistico, sia chiaro. Ma, come tutti gli scenari peggiori, deve costituire anche il punto di riferimento per misurare la nostra capacità di reagire a un’emergenza. Un tema da affrontare subito, anche nel nostro Paese. Pensare solo alla prossima campagna elettorale, come al solito, potrebbe condannarci all’impreparazione e a una nuova e più perniciosa emergenza.
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