L'unico sondaggio che conta per Donald Trump – e che guarda quotidianamente e ossessivamente – è l’andamento degli indici del New York Stock exchange.
La Borsa americana. Questo, almeno, dicono quelli che lo conoscono (se è possibile conoscerlo davvero). Il Dow Jones e il Nasdaq sono anche i benchmark dell’americano medio. Sono, in sintesi, il suo “welfare”. Diversamente che per noi europei, l’indice azionario è quello che permette ai cittadini americani attraverso l’investimento dei loro risparmi di programmare una parte consistente del proprio futuro.
Nel Nyse ci sono i fondi per le pensioni, per la sanità, per l’università dei figli. Se gli indici di Borsa salgono, gli americani si sentono ricchi e sicuri. Se vanno giù sorge la paura. Quindi come sostengono alcuni sarà il mercato a disciplinare Trump? Si vedrà. Intanto il presidente nei suoi primi quaranta giorni ha emanato una miriade di “ordini esecutivi”, più simili a editti che ad atti legislativi. Ed è proprio dalla lettura integrale di questi ordini esecutivi, che si può provare a fare una prima analisi per provare a capire dove The Donald abbia intenzione di traghettare, economicamente parlando, l’America. Se cioè, come direbbe Vasco Rossi, c’è un equilibrio sopra la follia. I pilastri sui quali Trump sta edificando il suo progetto economico degli Stati Uniti d’America sono sostanzialmente quattro: capitale della finanza mondiale; dominanza energetica; potenza del dollaro nelle transizioni monetarie globali e, infine, dominanza in tutti i settori all’avanguardia della tecnologia. I dazi non sono un obiettivo, ma uno strumento per raggiungere i propri obiettivi. Con sullo sfondo la Cina, disegnata come il principale avversario strategico sulla scena politica ed economica mondiale. I quattro pilastri possono essere anche visti come i quattro punti cardinali, necessari per orientarsi nel profluvio di dichiarazioni e di ordini esecutivi di Trump.
Per esempio il «drill baby, drill» della campagna elettorale, ha preso forma negli ordini esecutivi con la proclamazione dell’emergenza energetica nazionale, per liberare l’energia americana fino a quella dell’Alaska. E la potenza del dollaro? Intanto Trump ha più volte ribadito la minaccia ai Brics e Opec plus (in tutte e due ci sono con ruoli importanti Russia e Arabia Saudita) di non proseguire nel portare avanti il progetto di abbandonare il dollaro nelle transazioni del petrolio. E poi ha firmato un ordine esecutivo per “liberare” un particolare tipo di criptovaluta: le stablecoin. Qual è la particolarità? Che si tratta di monete virtuali agganciate al dollaro e che quindi lo sostengono. La difesa poi, delle grandi multinazionali del web è un altro dei pilastri della strategia. Nessuno tocchi, è l’avvertimento degli ordini esecutivi, Meta, Apple, Amazon & Co. Per questo gli Usa si sono subito sfilati dalla Global Tax e hanno messo nella lista nera (Italia compresa) tutti i Paesi che l’hanno adottata. Saranno questi giganti a dover garantire l’ultimo e più importante obiettivo: la dominanza nei mercati finanziari globali.
Cina fuori dalle imprese. Gli alleati soci silenti
Più che la sintesi delle decisioni finali, è l’analisi che colpisce. Nel suo ordine esecutivo per la “Politica di investimento America First”, Donald Trunp concentra la sua attenzione soprattutto su quello che avviene fuori dai confini degli Stati Uniti d’America. Lo sguardo è rivolto all’avversario strategico numero uno, la Cina. L’America, spiega Trump, vuole gli investimenti dei suoi partner e alleati, ma non a «tutti i costi». Perché non tutti gli investimenti sono nell’interesse del Paese. E qui arriviamo a Pechino, il cui governo dirige «sistematicamente l’investimento in asset statunitensi per ottenere tecnologie all’avanguardia, proprietà intellettuale e influenza nei settori strategici». La Repubblica Popolare Cinese, secondo quanto scrive il presidente Usa Trump, utilizza «il capitale statunitense per sviluppare e modernizzare il suo apparato militare». Alla base ci sarebbe una strategia di fusione «militare-civile». Le aziende cinesi, in sostanza, sarebbero parte del sistema. Per questo quando si quotano sulle Borse americane o occidentali o quando chiedono ai fondi di investimento di inserirle nei loro panieri, sfruttano «gli investitori statunitensi per finanziare e promuovere lo sviluppo e la modernizzazione» dell’esercito cinese. Se le premesse sono queste, le direttive impartite dal presidente Trump sono chiare. I cinesi non potranno in nessun modo investire in infrastrutture critiche americane, in assistenza sanitaria, in agricoltura, energia, materie prime e qualsiasi altro settore strategico. E non potranno nemmeno comprare terreni nelle vicinanze di queste strutture critiche. La Cina, insomma, deve allontanarsi dall’America. Ma anche per tutti gli altri investitori stranieri non si prospettano tempi facili. Gli Stati Uniti continueranno ad «accogliere e incoraggiare» gli investimenti «passivi» da parte delle persone straniere. Dove per «passivi» si intende investimenti che includono partecipazioni non di controllo, azioni senza diritti di voto e che non conferiscano nessuna influenza gestionale, decisione sostanziale o accesso non pubblico a tecnologie o informazioni tecniche. «Questo», spiega sempre Trump, «consentirà alle nostre aziende all’avanguardia di continuare a beneficiare del capitale di investimento straniero, garantendo al tempo stesso la protezione della nostra sicurezza nazionale». Lo si può tradurre anche in termini più diretti: a essere benvenuti sono soltanto i soldi. I soci stranieri, se vorranno partecipare alle imprese statunitensi dovranno essere pazienti e, soprattutto, silenti.
Stablecoin, la strategia per sostenere il dollaro
Nel mondo di The Donald non è tutto come appare. C’è una distanza tra il detto e il realizzato. Durante la campagna elettorale più di un osservatore si era chiesto che senso avesse per il Paese con la valuta mondiale dominante, il dollaro, volersi proclamare la capitale mondiale delle criptovalute. Un’apertura incondizionata che, per esempio, aveva spinto il Bitcoin ben oltre la soglia dei 100mila dollari. Tutto invece, è reso più chiaro dall’ordine esecutivo firmato da Trump sulla moneta digitale. L’obiettivo strategico, si legge, è «promuovere la sovranità del dollaro Usa, anche attraverso lo sviluppo di stablecoin sostenute dal dollaro». Questa semplice affermazione cambia tutte le carte in tavola. La caratteristica delle stablecoin è che per ogni unità emessa, ci deve essere in contropartita un asset reale. Può essere l’oro, può essere un’altra cripto come il Bitcoin, ma può soprattutto essere il dollaro. Ed è a questo che punta Trump. Ogni stablecoin emessa deve avere come sottostante il dollaro. In questo modo l’America può sostenere il valore della sua valuta, può finanziare il proprio deficit in una fase nella quale ci sarà, molto probabilmente, da “sostituire” la presenza cinese nel debito americano. Le stablecoin, nel progetto trumpiano, serviranno per rafforzare il peso del dollaro al livello internazionale e a frenare qualsiasi progetto di sostituirlo come moneta di riferimento. Anche qui la sfida con la Cina è evidente, che stava tentando di far emergere, tramite i Brics, lo Yuan come moneta alternativa per il commercio internazionale. Si vedrà se Trump rivedrà anche le regole nazionali, per fare in modo che le stablecoin abbiano “base” negli Stati Uniti e non in Paesi offshore (come nel caso di Teheter, la principale di queste monete). C’è un effetto collaterale sia per la Fed sia per la Bce. L’ordine esecutivo di Trump è una pietra tombale sul dollaro digitale, visto che ne vieta la creazione, ma anche sull’euro digitale, visto che, sempre secondo l’ordine presidenziale, non potrà circolare in America. E i Bitcoin? Una parte di quelli confiscati dalle Autorità americane nel corso degli anni, ce ne sono per 20 miliardi circa nelle casse del Tesoro americano, potranno essere utilizzati per costituire una riserva nazionale di criptovalute. Una mossa per strizzare l’occhio alla comunità dei criptoinvestiori che lo ha massicciamente votato.
Il drill baby, drill tra Corporate e Arabia
La dominanza energetica è l’altro manifesto disegnato negli ordini esecutivi. Una dominanza che passa dagli idrocarburi: carbone, petrolio e gas naturale, e con le tecnologie sviluppate in più di un secolo. E soprattutto conta sull’ultima rivoluzione: la tecnologia del fracking. Gli idrocarburi americani scontano per geologia, qualità chimica fisica e tecnica, costi superiori a quelli di estrazione del medio oriente (più qualitativo e meno costi). E la possibilità di azionare “spare capacity”, vale a dire quantità aggiuntive, dei sauditi condiziona chiaramente anche i trivellatori americani. Quindi drill baby drill – richiamati dagli ordini esecutivi dall’emergenza energetica nazionale a liberare l’energia americana a quella dell’Alaska – deve fare i conti con le decisioni della “Corporate America” e dei suoi conti. Soprattutto se prendiamo in considerazione, appunto, che liberare zone come le estrazioni in mare delle acque profonde o in Alaska, vuol dire portare sul mercato potenzialmente barili “marginali”, quelli più costosi. Vero che da una parte la capacità di evoluzione delle tecniche fracking (effetto cornucopia) e le recenti aggregazioni societarie hanno reso forse più resiliente il sistema dello shale oil rispetto all'ondata tumultuosa della corsa con migliaia di imprese che trivellavano. Tanto che gli arabi reagirono aprendo i rubinetti a tutta manetta facendo crollare il prezzo mandando lo shale in crisi e le società in difficoltà finanziaria. Potrebbe non essere dunque un caso la scelta di Riad come sede delle trattative per la pace Ucraina. E la presenza Russa non ha solo parte di attore (e aggressore) della guerra con l’Ucraina, ma è anche il principale alleato nell'Opec plus dei sauditi. Nonostante l’aumento della produzione nazionale americana di petrolio e gas, resta che anche gli Stati Uniti devono importare una certa quantità di greggio dal Golfo persico per soddisfare la qualità del sistema di raffinazione che lo shale oil non copre. Forse uno degli obiettivi di Trump più che sul prezzo internazionale, difficile da muovere con lo shale, è garantirsi il mercato interno e i prezzi al gallone del retail della benzina. Nelle elezioni americane c’è un postulato che tutti i presidenti in carica temono: se il prezzo del gallone di benzina supera i quattro dollari, l’amministrazione perde consenso. E oggi il prezzo della benzina americana sta attorno ai 3,2 dollari al gallone.
Il diktat sul tavolo. Dazi a chi non si adegua
Donald Trump alla fine ha deciso di rivelare le sue carte. «Questo è un grande momento di televisione», ha detto in un incontro-show con il presidente ucraino Zelensky nello Studio Ovale. Il reality show dalla nuova presidenza coinvolge tutto. E allora non ci deve stupire il fatto che nel ginepraio di ordini presidenziali (così tanti e in materie così diverse non se n’erano mai visti) una parte consistente sia dedicata ai dazi che, come ha più volte ripetuto «sono la mia parola preferita». Ma dei quasi 100 ordini firmati dal 20 gennaio, il giorno del suo insediamento, uno dei più rilevanti è stato pubblicato l’11 febbraio scorso e prevede di imporre tariffe del 25% sulle importazioni di alluminio e acciaio da tutti i Paesi del mondo. Per Trump il principale problema è prevenire l’ingresso delle due materie prime della Cina, principale produttore mondiale, evitando che «le esenzioni date ad alcuni Paesi vengano usate dalla Cina per approfittarsi di noi». In realtà molti Paesi negli anni passati hanno comprato acciaio e alluminio cinese che poi hanno venduto agli Stati Uniti, uno dei principali consumatori globali delle due materie prime. È anche vero che la quantità delle due materie prime importate dalla Cina è bassissima: nel 2024 il 5,2% dell’alluminio e l’1,8% dell’acciaio. E qui è importante fare un’altra distinzione: Washington produce parecchio acciaio, circa il 74% del suo fabbisogno annuale. Mentre importa moltissimo alluminio, circa il 44% di quello che consuma ogni anno. I Paesi che saranno più colpiti sono soprattutto il Canada, il Messico, la Corea del Sud, il Brasile e il Giappone. In particolare i due alleati – Canada e Messico – che ricavano rispettivamente lo 0,8% e lo 0,3% del loro Pil dall’esportazione dei due materiali in Usa.
Ci sono poi le tariffe reciproche che Trump sostiene di voler imporre su tutti i beni agli alleati – europei compresi – in base ai dazi che impongono agli Usa, includendo tasse come l’Iva all’interno del conteggio. Molti analisti mettono in dubbio il calcolo dell’amministrazione Trump, che continua a sostenere di poter guadagnare e di riuscire a rafforzare la produzione interna: il rischio è quello di far aumentare i prezzi e diminuire la crescita, portando Washington verso una recessione. Intanto il Canada ha iniziato a boicottare i prodotti americani nei supermercati e promette di rispondere imponendo dazi. Ma nel reality show di Trump questa nuova guerra delle tariffe potrebbe risolversi con un “deal” e allora mostrarsi per quello che è veramente: un rischioso tentativo di negoziare condizioni migliori per gli Usa.
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