Alessandra Ricci, ad di Sace: «Boom export, così abbiamo fatto volare il Made in Italy»

L'export spinge da anni la nostra economia e sta continuando a farlo anche in questi mesi di inflazione e di guerra in Europa.

Ma non essere pronti a cambiare, per cogliere le opportunità del made in Italy, sarebbe un errore fatale per le imprese tricolori. Soprattutto in tempi difficili. Il perché lo spiega Alessandra Ricci, romana, da un anno alla guida di Sace: la società del ministero dell’Economia la cui missione è proprio aiutare le aziende italiane ad andare all’estero, assicurando il credito all’esportazione, offrendo garanzie e più in generale accompagnandole grazie al patrimonio di conoscenze accumulate sui mercati di tutto il mondo.

Ricci, anche il 2022 è stato un anno buono per le esportazioni italiane. Ma quanta parte dell’incremento è dovuto all’effetto prezzi?

«I 625 miliardi di export sono un dato eccellente e l’aumento rispetto all’anno precedente è del 20 per cento, ma effettivamente ci sono luci e ombre. Solo una piccola parte della crescita è dovuta all’incremento in volume, il resto è inflazione. Però in questo c’è anche un elemento positivo: le imprese grazie agli investimenti in qualità sono riuscite a scaricare sul loro fatturato l’incremento dei costi. Se non fosse successo, avremmo visto addirittura un decremento dei volumi».

Vuol dire che i compratori esteri sono disposti a pagare anche di più per i prodotti italiani?

«Sì, il nostro export è apprezzato nel mondo e quindi si riesce a far pagare anche quei maggiori costi che le imprese italiane hanno dovuto affrontare per energia e materie prime. E attenzione: la qualità non è solo nelle cose che ci vengono subito in mente, come il design. In realtà l’export italiano è fatto in buona parte di macchinari e macchine utensili. È anche lì che viene percepita la qualità. Molto spesso si pensa che le imprese italiane non abbiano fatto investimenti in digitalizzazione. In realtà prima di Industria 4.0 l’innovazione compariva poco nei bilanci perché quasi nessuno registrava i costi di ricerca e sviluppo come tali, solo col 4.0 questi dati sono emersi. Ed è così che le aziende più dinamiche, che in buona parte coincidono con quelle orientate all’export, sono riuscite a mantenersi competitive».

La nostra è un’economia trainata dall’export, una risorsa su cui siamo abituati a fare affidamento. Ma il sistema Italia sarà capace di mantenere le posizioni?

«Negli ultimi dodici anni il nostro Pil è cresciuto di soli due punti in valore reale, mentre l’export del 9,9%. Vuol dire che le altre componenti hanno avuto un andamento negativo. Per il 2023 prevediamo esportazioni per 650 miliardi, con un’ulteriore crescita di quasi il 5 per cento. Saremo ancora il settimo esportatore a livello mondiale e il secondo in Europa, dopo la Germania ma davanti alla Francia. È davvero una posizione di eccellenza per un Paese che, dobbiamo ricordarlo, non ha materie prime. Però per le imprese è decisivo continuare a investire sulla qualità, perché il rischio di essere tagliati fuori dai mercati esiste sempre».

Che cosa vuol dire investire in qualità?

«Un esempio lo abbiamo già fatto ed è proprio quello dei macchinari. Prima per garantire l’assistenza post vendita serviva che si spostassero le persone, mentre oggi nel 90 per cento dei casi si può fare da remoto e questo è stato possibile proprio perché si è investito in digitalizzazione. E questi investimenti si trasformano tutti in valore aggiunto perché non c’è più il costo delle materie prime. Sono servizi ad alto valore aggiunto che per di più legano strettamente l’azienda all’acquirente, perché difficilmente viene smontato un macchinario che nella gran parte dei casi è stato fornito in versione personalizzata. Un altro aspetto importantissimo è quello della sostenibilità».

Un tema di gran moda.

«Tema di sopravvivenza direi. L’indipendenza energetica diventa un fattore di competitività. Questo vale per tutti ma ancora di più per chi esporta perché se il fattore prezzo continuerà a mordere non sarà più possibile restare in pista senza un sostanziale risparmio energetico. Anche su questo stiamo investendo tanto: sarà un fattore discriminante tra essere sul mercato e uscirne. Come Sace abbiamo fornito, nel 2022, 54 miliardi di garanzie; 22 sono andati a supporto dell’export, 29 a sostegno della liquidità sul mercato domestico e 3 miliardi, non pochi, sono serviti per investimenti sostenibili di piccole e medie imprese. Pmi che spesso non esportano direttamente ma sono nella filiera degli esportatori. Si tratta anche di creare una cultura, perché prima o poi i fornitori saranno selezionati in base ai criteri Esg: chi esporta dovrà garantire la sostenibilità di tutta la filiera e chi non ha fatto investimenti in questa direzione resterà fuori».

Come spiegherebbe in sintesi l’azione di Sace per allargare la presenza italiana all’estero?

«Affrontare i mercati internazionali non è uno scherzo. Bisogna andarci ben attrezzati. La nostra missione è innanzitutto creare relazioni. Oltre che accompagnare con coperture e garanzie, cerchiamo di favorire l’export nei Paesi in cui c’è sotto-penetrazione, rispetto al potenziale. Individuiamo i grandi compratori e li mettiamo in contatto con la filiera italiana di riferimento creando eventi cosiddetti business matching. In pratica diamo alle imprese italiane la possibilità di presentarsi, poi sta a loro farlo al meglio. Un’altra direttrice è l’apertura di nuovi mercati rispetto allo stesso prodotto. Esempio di attualità: ci sono aziende che esportavano solo in Russia, magari ad un unico cliente. Ora quel mercato si è chiuso. Offrendo coperture cosiddette “ad ombrello” le accompagniamo verso la differenziazione. Così davvero una crisi può diventare un’opportunità che altrimenti non sarebbe stata colta. E a proposito di cogliere le opportunità: in questi giorni, fino all’11 maggio, sulla nostra piattaforma mysace.it offriamo tre valutazioni di rischio gratuite alle Pmi. È un modo per sensibilizzare alla prevenzione dei rischi le aziende che finora non si sono poste il problema».

Quali sono al momento le aree del mondo più promettenti?

«Il Middle East sta facendo grandi investimenti infrastrutturali grazie ai margini sui prodotti energetici. Paradossalmente i Paesi produttori di petrolio possono fare il salto verso la sostenibilità in maniera molto più veloce di noi. Poi direi l’America Latina, su diversi settori: il Messico per la manifattura, il Brasile per le energie rinnovabili. In Africa la situazione è a macchia di leopardo, con economie che offrono buone opportunità: e proprio in situazioni di quel tipo la copertura di Sace serve a stabilizzare il rischio geopolitico. Che, come dimostra proprio il caso russo, è un “rischio di coda”: quando poi si concretizza, succede tutto quello che uno non si sarebbe aspettato».

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